Riflessioni
4 febbraio 2020 • Dite qualcosa di garantista!
La querelle Camera Penale di Milano / Davigo ci sembra evidenziare un aspetto che, in genere, non è stato fin qui adeguatamente sottolineato: l’invito espressamente rivolto alla magistratura associata dal Presidente della Camera Penale milanese di dissociarsi da una serie di affermazioni del Dr. Davigo che farebbero arrossire l’ultimo dei neo magistrati e che, in bocca a un ex presidente di Sezione di Cassazione e del vicepresidente del CSM, suonano come una bestemmia in chiesa.
Il Dr. Davigo da anni – ma con recente rinvigorimento, coincidente con la ventata di giustizialismo che ammorba il bel paese -, propina all’opinione pubblica idee di stampo autoritario che fanno a cazzotti con la presunzione di non colpevolezza (il famoso “non esistono innocenti, solo colpevoli non scoperti”), con il diritto di difesa (l’ultima è l’idea perversa di sanzionare economicamente il difensore dell’imputato che abbia l’audacia di fare ricorso per Cassazione) e la funzione rieducativa della pena (“negli Usa se delinqui ti danno una mazzata tale che non ti rialzi più”).
Non proprio un manuale di diritto costituzionale, insomma. Che poi tutto ciò sia detto dal pulpito di autorevoli (si fa per dire) salotti televisivi o sulle pagine di prestigiosi (si fa ancora più per dire) quotidiani, e, per di più, per mezzo di barzellette che ridicolizzano il sistema giudiziario, rende la vicenda ancora più grave e grottesca.
Dunque, tornando alla richiesta della CP Milano, come reagisce la magistratura rispetto a queste dichiarazioni? Fino ad ora niente, non reagisce, sembra presa da un attacco di afasia acuta che si spera sia solo momentaneo.
Infatti noi non pensiamo che quello del Dr. Davigo sia lo specchio del pensiero della magistratura, cioè di coloro che dovrebbero condividere con noi penalisti il comune terreno dei diritti individuali e delle garanzie costituzionali. Però ce lo dicano chiaramente che loro sono fatti di tutt’altra pasta, che non condividono, che quelle dichiarazioni fanno accapponare la loro come la nostra pelle. Perché se no qualcuno di noi, abituati per deformazione professionale al dubbio, potrebbe pensare che non sia così, che aderiscano più o meno segretamente a quelle idee smaccatamente incostituzionali. Oppure che non parlino per paura. E non sappiamo quale delle due ipotesi sia peggiore.
15 novembre 2018 • Confessioni di un imputato nell'anno 2039.
Eccomi qui. Oggi è un anniversario, ma non di quelli da festeggiare: sono 20 anni da quel giorno maledetto, quello in cui iniziò a precipitare tutto, il 20 gennaio 2019, giorno in cui alle 6 del mattino fui svegliato di soprassalto dai Carabinieri che bussavano alla mia porta. Mia moglie e mia figlia si spaventarono a morte. “Dobbiamo solo cercare dei documenti, Dottore”, dissero i Carabinieri prima di ribaltarmi la casa come un calzino e portare via computer, tablet e cellulari. Fu l’inizio della fine.
E dire che prima, nella mia vita "precedente", tutto era andato bene, liscio come l’olio. Quell’intuizione, quella start up avviata con un paio di amici e poi trasformata in una società di informatica che arrivò ad avere una cinquantina di dipendenti. E poi…poi quella gara maledetta per avere l’appalto del Comune. La mia società se la aggiudicò facilmente, tanto eravamo superiori alle altre come offerta economica e qualità della prestazione. Troppo facilmente, per qualcuno.
E infatti il PM, chissà dopo quale delazione, iniziò a intercettare il mio telefono. E probabilmente fece un salto sulla sedia quando lesse questo sms “Sei un amico, mi hai fatto fare un grande affare. Mi dirai poi tu ma almeno una cena fattela offrire”. Io volevo ringraziare il mio amico, Dirigente Comunale, che conosco da quando facevamo le medie, perché mi aveva segnalato un auto a km 0 che costava davvero uno scherzo. Per il PM invece era la prova regina, la prova provata della corruzione.
E così partì la macchina infernale della giustizia.
Non fui arrestato, quello no, ma forse peggio: i giornali locali per mesi riportarono la notizia dell'indagine distruggendo ogni briciolo della mia reputazione. Il colpo di grazia però fu il sequestro dei conti correnti della società e miei personali. Non ci fu nulla da fare. L’avvocato andò fino in Cassazione ma il sequestro, in base alle norme del codice penale e del DDL anticorruzione approvate qualche mese prima, nel 2018, dal governo populista allora in carica, era giustificatissimo dal punto di vista processuale: peccato che fosse tutto un equivoco.
Non fu invece un equivoco ma un dramma quando le banche mi abbandonarono, visto che la società avevo i conti bloccati e non poteva momentaneamente far fronte ai rientri dalle linee di credito ottenute.
Iniziammo ad andare in difficoltà e non passò molto prima che il Tribunale, su istanza di un fornitore che avanzava un credito importante, ci fece fallire. 50 famiglie, che non erano meno innocenti di me, si trovarono in mezzo a una strada e io per loro non potevo fare niente come non potevo fare niente nemmeno per me stesso, visto che i beni personali erano stati sequestrati. La mia vita andrò a rotoli, lentamente ma inesorabilmente. Dei tanti amici che avevo ne rimasero proprio pochi, e mia moglie mi lasciò portandosi dietro la bambina. Non la posso biasimare: l’avevo convinta ad abbandonare il suo lavoro e non potevo più nemmeno garantirle una cena in pizzeria.
L’unico momento felice fu quattro anni dopo, quando il tribunale, dopo un processo in cui difesi con i denti non solo la mia condotta ma anche la mia reputazione, mi assolse da qualsiasi imputazione. La sentenza lo disse chiaro e tondo: “il fatto non sussiste”. Era stato tutto un equivoco, ma come una slavina aveva determinato conseguenze gravissime e irreparabili. Quando, nello studio dell’avvocato, lessi la sentenza dissi “bene avvocato, finalmente adesso mi restituiranno tutto” mi rispose, distogliendo lo sguardo: “no, Dottore, purtroppo i sequestri rimangono fino a quando la sentenza non sarà definitiva. Il PM è un osso duro, non si rassegnerà alla brutta figura che ha fatto e farà appello”. Infatti due giorni dopo il PM depositò l’appello. Quando chiesi all’avvocato entro quanto il processo d’appello sarebbe stato fissato mi rispose “chi può dirlo? Lei lo sa che dal 2018 la prescrizione è stata sospesa dopo il primo grado, anche in caso di assoluzione. Quindi, in pratica, la Corte d’Appello potrebbe fissare udienza anche tra 50 anni”. “Come? Sono stato assolto e per lo Stato devo essere comunque punito?”, sbottai, frustrato, ma mi dovetti presto rassegnare a rimanere imputato a vita.
Ed eccomi qui, sono passati altri sedici anni e dell’appello ancora non ho notizia. E, onestamente, ormai non me ne importa niente. Tanto nessuno mi ridarà la mia famiglia, il mio lavoro e il mio onore personale: al sequestro dei beni lo Stato ha aggiunto anche quello della mia vita.
Alessandro Brùstia
26 ottobre 2018 • Le statistiche sui reati e i polli di Trilussa.
E’ vero che la statistica, secondo l’immortale insegnamento di Trilussa, è quella cosa per la quale se tu hai mangiato un pollo e io zero finisce che ne abbiamo mangiato metà a testa, però bisognerebbe iniziare a non spacciare per verità assolute dati che sono quanto meno parziali e, quindi fuorvianti.
Una statistica comparsa questa settimana sul Sole 24 Ore, intitolata in modo roboante “indice della criminalità”, ha costruito il seguente podio delle città più “criminali” – e quindi pericolose - d’Italia: Milano, Rimini e Bologna. Ora, passi per Milano, ma che la dotta Bologna e la godereccia Rimini siano patrie della criminalità, oltre che della mortadella e della piadina, sembra strano, no?
Se poi si passa agli ultimi posti, cioè alle città più “sicure”, si trovano città come Potenza, Agrigento ed Enna, oltre alle scontate Belluno e Treviso (evidentemente, con buona pace del Ministro dell’Interno, non affette dal tremendo morbo della criminalità degli immigrati): le stesse Catanzaro e Reggio Calabria si collocano in classifica in posizione virtuosa.
In realtà, andando a spulciare, si scopre che lo studio è fatto sulla base non dei reati effettivamente commessi ma sul numero di denunce sporte, quindi sui reati denunciati. Che i due dati non coincidano, nemmeno lontanamente, è considerazione davvero banale: possono esserci molti reati non denunciati (quelli bagatellari, come per esempio i furti di biciclette) ma soprattutto possono esserci molte denunce che poi danno vita a un procedimento penale che si conclude con l’assoluzione del denunciato.
Sarebbe quindi più corretto presentare lo studio dicendo che indica, con certezza, le città in cui si fanno più denunce, magari perché si ha più fiducia nelle forze dell’ordine o per mille altri motivi, non quelle in cui si commettono più reati: i reati si accertano in Tribunale, non presso le stazioni dei Carabinieri o presso i Commissariati di Polizia.
Forse per fare in modo che l’opinione pubblica torni ad avere spirito critico nei confronti del mondo del diritto penale sarebbe il caso di iniziare non facendo titoloni fuorvianti.
Alessandro Brùstia
7 giugno 2018 • La pacchia dei garantisti e l’avvocato del popolo.
Certo tutto si può dire salvo che il discorso di insediamento del premier Conte non abbia delineato con precisione le linee guida e gli obiettivi del neonato governo in tema di giustizia. Si è parlato di aumento delle pene, di carcere per gli evasori (ma, vivaddio, solo per i grandi), di riforma della prescrizione (“mero espediente per sottrarsi al giusto processo”) e di processi rapidi. Infine, e non poteva mancare, il richiamo, seppure fugace, al Leviatano, al moloch tanto caro al dr. Davigo: l'agente provocatore, epitome dello stato etico totalitario che andava tanto di moda quasi un secolo fa.
La ringraziamo, Professor Conte, per avere sgomberato il campo da equivoci e fraintendimenti dovuti a toni da campagna elettorale permanente. Potevamo pensare che scherzaste, ma adesso è nero su bianco: in nome dell'investitura popolare che lei rivendica cosi orgogliosamente, il suo governo si candida ad essere il più illiberale della storia della Repubblica.
Dunque per noi irriducibili garantisti, come per i clandestini, la pacchia è davvero finita (cit), nonostante, Professore, il nostro, per quanto malmesso e raffazzonato, rimane un ordinamento di ispirazione liberale.
In ogni caso Lei si è auto nominato avvocato del popolo, quindi anche il nostro, che del popolo italiano facciamo parte. Vista la sua visione della giustizia non siamo contenti che lei ci difenda. Quindi non si affanni: sia pure l'avvocato di altri, difenda pure quelli che la pensano come lei, quelli che guardano a modelli di democrazia come la Russia o l'Ungheria.
Noi le revochiamo il mandato.
Alessandro Brùstia
Intervento del Comandante del Reparto della Casa Circondariale di Novara
Commissario coordinatore Rocco Macrì
25 maggio 2018
Autorità, Signore e Signori,
un caloroso saluto a voi tutti e un sentito grazie per essere presenti e vicini al personale del reparto di Polizia Penitenziaria della Casa Circondariale di Novara per festeggiare insieme il 201° Anniversario di Fondazione.
Saluto anche il personale di polizia penitenziaria della C.C. di Verbania che, condividendo da anni lo stesso direttore, condivide con noi oggi anche questo giorno di festa.
Mi accingo a fare il punto sui dati riferiti alla capienza e all'attività del personale.
L'istituto penitenziario di Novara alla data odierna ospita 106 detenuti a regime media sicurezza e 68 a regime speciale previsto dall'art. 41 bis dell' O.P.
Non è un istituto di grandi dimensioni ma di sicura particolare importanza, da un lato per la tipologia di soggetti che vi sono assegnati e, dall’altro, per gli alti livelli d’impegno e l’attenzione richiesti al personale per assicurare la massima garanzia di sicurezza e nel contempo le migliori condizioni di vivibilità e risultati di trattamento.
L'istituto rispetto al passato è sicuramente meno affollato. Il reparto media sicurezza contiene un numero di detenuti entro la capienza tollerabile ma comunque superiore rispetto alla capienza regolamentare.
Nella sezione per soggetti in attesa di sentenza definitiva sono allocati 4 detenuti per camera detentiva di 20 mq., mentre nella sezione destinata a soggetti con condanna definitiva, pur essendo le camere sempre di 20 mq. sono allocati un massimo di 6 detenuti, la maggiore presenza è legata al fatto che durante il giorno dalle 8:00 alle 20:00 tutte le camere rimangono con il cancello aperto consentendo ai detenuti maggiore libertà di movimento all’interno della sezione, con facoltà di muoversi nel corridoio o recarsi dai compagni nelle altre camere, oppure utilizzare le salette di socialità o il locale docce.
Seppure con qualche difficoltà si sta garantendo a tutti lo spazio minimo imposto dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.
Il numero di presenze oltre la capienza regolamentare incide ovviamente sulla qualità della vivibilità tra detenuti rendendo più difficile la collocazione di soggetti nuovi giunti e più frequente l’insorgere di situazioni di incompatibilità caratteriale o di convivenza, specie quando sono presenti soggetti con problemi psichiatrici, e gli interventi del personale per evitare situazioni di criticità sono molteplici.
In questo istituto convivono pacificamente diverse nazionalità e culture. Nel reparto a regime ordinario l’attuale presenza di detenuti stranieri di varia provenienza è del 62%. Nonostante la forte diversità il clima che si respira è quello di un ambiente di grande integrazione sociale e su tale aspetto la professionalità e l'esperienza del personale gioca un ruolo fondamentale e determinante nel favorirlo.
Nel reparto 41 bis sono invece presenti, tutti in camere singole, solo detenuti di nazionalità italiana, 1/3 di siciliani, 1/3 di calabresi e 1/3 di campani e una piccola percentuale di pugliesi, rispettivamente per reati associativi di mafia, ndrangheta, camorra e sacra corona.
Le attività trattamentali messe in campo durante l’anno in sinergia con in personale dell’area educativa sono state molteplici ed il personale di P.P. costantemente impegnato nel garantirne in totale sicurezza l’esecuzione, consapevole che queste sono espressione di diritto e civiltà oltre che strumenti che favoriscono la conoscenza e il recupero.
Sul tema lavoro le occupazioni lavorative interne con relativa retribuzione che l'istituto fa eseguire ai detenuti sono 46, durante l'anno hanno svolto attività lavorativa 115 detenuti, 68 a tempo indeterminato e 47 a tempo determinato.
Grazie ad un protocollo d’intesa con il comune di Novara in collaborazione con ASSA, 8 detenuti (non sempre gli stessi) sono accompagnati con scorta fuori dal carcere ogni martedì per espletare attività di volontariato finalizzata a bonificare aree cittadine soggette a degrado o necessitanti di manutenzione. Nell’ultimo anno sono state realizzare 46 giornate di recupero ambientale cui hanno partecipato un totale di 50 detenuti.
Con la manodopera gratuita dei detenuti sono stati effettuati 2 interventi nelle scuole materne per lavori di stuccatura e imbiancatura nell'ambito del protocollo d'intesa con il Comune di Novara.
Sono state realizzate anche attività culturali, ricreative e sportive:
corso di scuola media.
corso per operatore pre-stampa grafica.
corso operatore web.
corso di teatro;
corso di guida alla lettura;
corso sull'intelligenza emotiva;
5 incontri con l'autore;
6 laboratori di scienze in collaborazione con il museo di scienze naturali di Torino;
4 incontri sulla genitorialità tra detenuti e figli con la collaborazione delle associazioni di volontariato (Clown e Kipol);
Partecipato alla giornata evento nazionale "Bambinisenzasbarre";
Attivato un protocollo d'intesa con il telefono azzurro per il progetto genitorialità;
25 detenuti hanno partecipato alla giornata mondiale contro la violenza sulle donne.
Effettuati 2 concerti musicali e 2 spettacoli teatrali a favore dei detenuti grazie alla partecipazione esterna;
A Natale la Comunità Sant'Egidio ha offerto e materialmente servito il pranzo a 100 detenuti che l’hanno consumato festeggiando tutti insieme nella tensostruttura.
Nel decorso anno i detenuti in ingresso sono stati 247 dalla libertà e 56 da altra sede per un totale di 303.
Quelli in uscita sono stati 335, ossia 32 in più rispetto a quelli in entrata, determinando, rispetto al passato, un calo della presenze e del sovraffollamento.
Questo anche grazie all'ordinanza del magistrato di sorveglianza di Novara, d.ssa Lina Di Domenico che ha accolto un reclamo collettivo avanzato dai detenuti c.d. "a regime chiuso" che lamentavano condizioni di vita non facili a causa del sovraffollamento nelle camere e della non sufficiente presenza di spazi per momenti di socialità alternativi ad esse. L'immediata esecuzione di questa ordinanza ha consentito di abbassare fino ad un massimo di 4 le presenze di detenuti in ogni camera della sezione destinata a soggetti in attesa di sentenza definitiva.
Le traduzioni effettuate sono state 564, movimentati 939 detenuti di cui 84 in regime 41 bis, 19 le traduzioni con vettore aereo e 116 i trasporti in ospedale per gravi malori, accertamenti diagnostici, o interventi chirurgici.
Su disposizione dell'A.G. sono state censurate 15.530 missive spedite dai detenuti 41 bis o ad essi destinate, sottoposti a visto di censura anche 1.716 tra libri, riviste e giornali. Eseguiti 11 decreti di intercettazione. Sempre su delega dell’A.G. effettuato l’ascolto e la contestuale video-registrazione di 686 colloqui visivi e telefonici di detenuti 41 bis.
Effettuati 3.857 colloqui detenuti, acceduti e controllati 11.185 familiari.
Gli atti di p.g. di iniziativa e delegati sono stati 115.
Nel 2017 il tempestivo rilevamento dell’esecuzione in atto e l’immediato intervento del personale di servizio nei reparti detentivi ha impedito che fossero portati a termine 4 tentativi di suicidio posti in essere dai detenuti in un momento di sconforto.
Costante continua ad essere la partecipazione della Polizia Penitenziaria all’attività di ordine pubblico allo stadio durante le partite di calcio del Novara.
Realizzato da qualche anno continua ad essere attivo il laboratorio per il prelievo dei campioni del DNA.
I dati appena forniti solo in parte e a grandi linee tracciano l'attività del reparto, possono apparire dati freddi ma vi assicuro trasudano spesso di sofferenza e stress psicofisico, anche legato a un organico in costante diminuzione, nell'ultimo quinquennio si è ridotto di 30 unità e altre 20 sono perennemente distaccate ad altre sedi.
Verbania
Per quanto riguarda la Casa Circondariale di Verbania, a nome col collega ivi comandante commissario capo Domenico LA GALA qui presente, evidenzio che ha una capienza regolamentare di 53 detenuti e tollerabile di 89, mentre la presenza odierna è di 64 detenuti.
I circuiti detentivi presenti nella sede di Verbania sono 5 ognuno destinato ad una particolare categoria si soggetti: detenuti comuni , omosessuali , ex appartenenti alle Forze di Polizia, Stalkers.
Le principali Attività trattamentali avviate sono: un corso pasticceria e panificazione (curato dalla Casa di Carità ONLUS);
un corso di fotografia e uno di invito alla lettura (curato dall’associazione di volontariato "Camminare insieme").
In regime di cui art. 21 O.P lavorano all’esterno dell’istituto di pena 4 detenuti, due nel biscottificio “Banda Biscotti e 2 alla mensa sociale “Gattabuia”.
Il reparto di Polizia Penitenziaria di Verbania è composto complessivamente da 46 unità.
Questa festa è sicuramente l'occasione migliore per ringraziare pubblicamente e con grande orgoglio le donne e gli uomini dei reparti di Verbania e Novara, in particolare tutti quelli che con grande passione e senso di responsabilità interpretano il proprio ruolo e la propria mansione, impegnandosi e offrendo in ogni momento e in ogni situazione il loro incondizionato prezioso contributo, motivati dalla stima di se stessi, dalla volontà di stare al passo con i tempi, di accettare le sfide e accrescere professionalmente.
Senza di loro i lusinghieri risultati raggiunti mai i sarebbero potuti conseguire.
Quello del poliziotto penitenziario è un lavoro silenzioso, frenetico, pregnante di abnegazione, senso del dovere, professionalità e soprattutto di tanta umanità ma ancora molto sconosciuto, però pian piano l'opinione pubblica sta avendo modo di conoscere e apprezzare l’importanza e le potenzialità anche grazie al fatto che il carcere da un lato sta sempre più diventando una casa di vetro dove tutti possono vedere cosa accade dentro e, dall'altro, è sempre più propenso a proiettarsi all’esterno e offrire attraverso la manodopera dei detenuti un tangibile contributo nei lavori socialmente utili. Questa apertura all'esterno ha permesso nella rilevazione Eurispes del 2018 di ottenere a livello nazionale un aumento di consenso di fiducia da parte dei cittadini con un'impennata del + 16% rispetto al 2017 raggiungendo i livelli delle altre tre forze di polizia dello Stato e questo ci lusinga e ci riempie d'orgoglio, non è certamente il traguardo, sappiamo bene che tanto c’è ancora da fare, ma è un piccolo segnale che stiamo sulla buona strada.
Su questa strada non siamo soli. Nel carcere si intrecciano e collaborano diverse e preziose professioni, parlare di festa della Polizia Penitenziaria mi sembra pertanto riduttivo, quasi ingiusto. Ritengo invece più correttamente che la festa appartenga a tutte le sue componenti, nessuna esclusa, perché gli obiettivi sono stati raggiunti anche grazie al loro costante e insostituibile apporto.
Concludo ringraziando i colleghi in pensione che un tempo sono stati il nostro punto di riferimento trasmettendoci esperienza e competenza, e ora attraverso la loro costante semplice presenza tra noi continuano a rafforzare i sentimenti di amicizia e solidarietà che ci legano.
In questo giorno di festa non manca un commosso pensiero dei colleghi non più in vita alcuni dei quali ci hanno purtroppo lasciato prematuramente. Un tempo sono stati nostri compagni di lavoro, con loro abbiamo affrontato le situazioni più disparate che il lavoro ci ha riservato e condiviso le soddisfazioni e i bei momenti che ci siamo costruiti o che ci sono capitati. Chi li ha conosciuti sono sicuro li ricorderà sempre con immutato affetto.
Chiudo questo mio intervento augurando ogni bene alle donne e agli uomini di questo reparto di polizia penitenziaria, ai colleghi di Verbania e a tutti gli altri operatori, presenti e assenti, augurio che estendo anche alle rispettive famiglie che inevitabilmente condividono gioie e difficoltà di questa professione e sono insostituibile forza nelle nostre fatiche.
Grazie ancora a tutti gli intervenuti. Viva la Polizia Penitenziaria. Viva l'Italia.
Commento
La relazione annuale sullo stato della locale Casa Circondariale mette in evidenza due versanti sui quali da tempo si è effettivamente distinta la Direzione del nostro Istituto di pena: condizioni di vita carceraria (almeno per la sezione del “giudiziario”) in linea con gli standard enucleati in sede europea; attività trattamentali ampie e diversificate, in aderenza al principio costituzionale del finalismo rieducativo della pena detentiva.
Non devono tuttavia sfuggire le criticità ancora presenti all’interno della realtà inframuraria novarese: carenze strutturali, dovute alle caratteristiche del complesso penitenziario, risalente agli anni ’70 (due sole sale per i colloqui coi familiari nonchè due sole salette avvocati; l’infermeria posta al primo piano senza ascensore; la sezione ex femminile in disuso da anni); carenze di personale (2 soli educatori a fronte di oltre 170 detenuti).
Da ultimo, la sezione speciale ex art. 41bis O.P. merita un discorso a parte, in ragione delle caratteristiche proprie di tale regime differenziato: qui la detenzione è particolarmente afflittiva (per es. 22 ore su 24 in cella!), ben oltre la funzione che si prefigge di assolvere (evitare i contatti tra l’affiliato ed il consesso criminale di origine) e le opportunità risocializzative assai limitate (un solo colloquio al mese coi familiari, con vetro divisorio a tutta altezza; una sola ora d’aria al giorno, in gruppo di massimo 4 persone; una sola ora di socialità al giorno).
In definitiva, mutuando Dostoevskij secondo cui “il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni”, si potrebbe dire, guardando alla realtà novarese, che siamo sulla strada giusta ma c’è ancora tanto cammino davanti a noi.
Per il Direttivo della Camera Penale
Avv. Fabio Fazio
4 marzo 2018 • Lettera aperta al Dr. Roia
Egregio Dr. Roia, sono un penalista e ho letto il suo articolo sul Corriere della Sera del 15 febbraio scorso in relazione al verbale dell’incidente probatorio nel procedimento fiorentino nei confronti dei Carabinieri, accusati di violenza sessuale in danno di due ragazze americane. Il verbale, o meglio un estratto, è stato pubblicato dallo stesso quotidiano per evidenziare come il Giudice abbia impedito ai difensori di rivolgere alle persone offese, “vittime due volte”, domande troppo invasive e non pertinenti rispetto al tema.
In primo luogo mi pare che non si possa valutare un procedimento di cui non si conoscono le carte; e, tantomeno, si può valutare la pertinenza di domande stralciate da un percorso argomentativo, quello del controesame, molto delicato e tecnico, come lei certamente sa.
Ciò premesso il bilanciamento degli interessi in gioco è indubitabilmente difficile: converrà però che la necessità di non mettere in difficoltà le (presunte) vittime di violenza sessuale non può prevalere sull’esigenza, definita “inviolabile” dalla Costituzione, di difendere un (presunto) innocente, anche a costo di scandagliare, ebbene sì, gli orientamenti sessuali della persona offesa e il suo abbigliamento di quella sera. Chè di sesso si parla nei reati di violenza sessuale, piaccia o no.
Il punto però è questo: dalle sue parole sembra quasi trasparire una scarsa considerazione, che sicuramente non le appartiene, per le prerogative della difesa; lei sostiene addirittura la necessità di evitare, e anzi denunciare, le “violenze in toga” per evidenziare, in chi le commetta, una “responsabilità deontologica e professionale”.
Bene. Le confesso che io, lavorando quotidianamente come difensore degli accusati di qualsiasi tipo di reato, sono uno che quelle che lei chiama violenze in toga le commette.
E per comprenderne la ragione, mi piacerebbe che lei, una volta, una volta soltanto, potesse mettere una toga diversa dalla sua e sedersi da questa parte dell’aula, di fianco a un imputato la cui vita è (già) rovinata dal solo essere sottoposto a un procedimento così infamante; mi piacerebbe che la sera prima lei avesse ricevuto fino a tardi il cliente e i suoi parenti in lacrime, che la implorano di far emergere la verità; mi piacerebbe che sentisse il peso schiacciante di un procedimento difficile, nel quale una domanda della difesa, una sfumatura, un termine, può salvare la vita di una persona che è pur sempre presunta innocente; mi piacerebbe che provasse la frustrazione di sentire un giudice che si esprime seccamente e con malcelato fastidio (“domanda non ammessa”) non consentendo domande che, per quanto scomode, hanno un grado di invasività direttamente proporzionale all’importanza di esplorare i temi di prova, per quanto scabrosi; mi piacerebbe, infine, che provasse cosa significhi uscire dall’aula umiliato e dovendo tuttavia sostenere lo sguardo del cliente, ormai convinto che il processo sia segnato e che il suo difensore ben poco abbia potuto fare per raddrizzarlo.
A me piacerebbe che lei provasse tutto questo, prima di parlare di violenze in toga. Perché la toga che noi portiamo non ha un peso diverso da quella che porta lei, ed è segnata da enormi sofferenze umane, non meno degne di considerazione di quelle delle vittime di reati sessuali.
Alessandro Brùstia
30 novembre 2017 • Video shock: cui prodest?
Immagini raccapriccianti, orribili, tali da dover distogliere lo sguardo. Si susseguono senza sosta e, invece, ipnotizzano gli attoniti spettatori. No, non è un reportage da una città del medio oriente martoriata dalle bombe. Sono le immagini “targate” Polizia di Stato che da qualche sera vengono trasmesse in prima serata da tutti i telegiornali nazionali: sono le immagini delle maestre di Vercelli che picchiano e insultano dei poveri bambini di 4 o 5 anni.
Su queste immagini una riflessione che vada al di là dello scontato sdegno va fatta. E la riflessione passa da una lunga ma doverosa serie di interrogativi.
Qual è lo scopo, per gli inquirenti, di inviare quelle immagini alle televisioni?
Qual è lo scopo di mostrarle in prima serata, con tanto di sottotitoli?
E’ proprio necessario colpire così duramente il telespettatore?
Possiamo dire, come si fa per le immagini di guerra, che comunque il cittadino, l’utente, il telespettatore, ha diritto di sapere, di vedere, di toccare con mano le brutture e le meschinità a cui può scendere l’animo umano?
Al cittadino non basterebbe sapere del fatto e dell’arresto dei suoi autori? Il suo diritto all’informazione sarebbe irrimediabilmente leso se non gli mostrassimo i pugni e i calci sui bambini inermi e non gli facessimo sentire e leggere gli insulti e le minacce?
Lo scopo dell’operazione è evidente (gli inquirenti hanno dichiarato che quelle mostrate al telegiornale sono le immagini che immortalano gli episodi peggiori) dal momento che gli interessi in gioco, quello degli inquirenti e quello dei media, poggiano uno sull’altro e si fondono. Il risultato, in primo luogo, è di alimentare un’enorme rabbia verso delle persone, che, piaccia o meno, sono presunte innocenti in base alla Costituzione, e, inoltre, di spettacolarizzare una notizia che, non accompagnata dalle immagini, perderebbe quella terribile pervasività agli occhi del telespettatore.
La conclusione è che la trasmissione delle immagini ingenera una psicosi involontaria ma tanto inevitabile quanto umana: milioni di genitori si chiederanno se anche le maestre dei propri bambini possano comportarsi così, se ci sia da fidarsi, se non sia meglio addirittura imporre per legge il posizionamento di telecamere che le monitorino senza sosta. Roba che solo Orwell avrebbe concepito nel suo noto capolavoro.
Bisogna allora chiedersi se tra i compiti delle forze dell’Ordine ci sia non solo quello di perseguire i reati ma anche di suscitare lo sdegno, sentimento umano ma che poco c’entra con l’amministrazione della giustizia. Perché allora mostrare quelle immagini? Perché giovano a chi, a tutti i livelli, pensa che la spettacolarizzazione mediatica delle indagini possa tornare utile, politicamente (col buttate la chiave si recuperano milioni di voti) e giudiziariamente (le indagini sono forrtemente rafforzate dall’aver portato l’opinione pubblica all’indignazione, un grande passo verso la condanna è stato fatto). Il tutto a discapito, in fin dei conti, della serenità delle persone offese e delle loro famiglie.
Alessandro Brùstia
4 settembre 2017 • Emergenza stup(r)idi
Emergenza stupri. In queste ore, a giudicare dai media, i delinquenti che si annidano nel belpaese sarebbero fortemente impegnati nel campo delle violenze sessuali. In 48 ore ben 5 casi! Singolarmente, nello stesso periodo di tempo, nessuna donna sarebbe stata maltrattata, malmenata o uccisa dall’ex marito/compagno. Nessuno sarebbe stato investito da auto pirata e nemmeno un bambino sarebbe stato morsicato dai cani.
Insomma, sempre di emergenza criminale parliamo, ma almeno i nostri delinquenti agiscono ordinatamente e per gruppi omogenei: sai che casino, invece, se ogni giorno le cronache dovessero dire che è stato commesso un omicidio stradale qui e uno stalking là, una truffa a Bolzano e una rissa in discoteca a Lecce?
Meglio così: le mode, anche quando riguardano il codice penale, vanno seguite una per volta, altrimenti come facciamo ad abbindolare il cittadino?
Alessandro Brùstia
20 luglio 2017 • Tanto rumore per nulla
Dunque alla fine il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha deciso: le condizioni fisiche di Totò Riina non sono incompatibili con il regime detentivo, anche considerata la predisposizione di “presidi medici e assistenziali di altissimo livello”. Riina così continuerà a scontare la sua pena in carcere.
Tutto risolto, quindi? Non proprio. Perché non si è ancora spenta l’eco delle polemiche successive alla sentenza della Cassazione, che aveva rimesso al Tribunale di Sorveglianza di Bologna, appunto, la valutazione della compatibilità della permanenza in carcere con il diritto di questo condannato, come di tutti i condannati, a morire dignitosamente. In effetti la Cassazione non aveva fatto altro che ribadire un concetto molto semplice: la legge è uguale per tutti, mafiosi compresi, e lo Stato di diritto è rafforzato, non indebolito, nel momento in cui non fa eccezione per nessuno, nemmeno per un criminale come Totò Riina.
Conclusione non condivisa però dagli indignati in servizio effettivo permanente, professionisti dell’antimafia in testa (e i due grandissimi autori delle rispettive citazioni ne perdonino l’abuso da lassù), i quali a suo tempo si stracciarono le vesti mistificando la realtà e soffiando sul fuoco della solita, scontatissima polemica giustizialista ma dimenticando che il rispetto della legalità non si ferma sulla soglia della cella dei condannati, mafiosi o meno, famosi e non.
Alessandro Brùstia
11 maggio 2017 • Festina Lente
Ragionevole durata del processo, gradi di giudizio, garanzie difensive, termini di prescrizione…il cittadino rischia di perderci la testa. Ma in definitiva, ‘sto processo come deve essere? Lento o veloce?
A favore della speditezza militano tanti fattori, in primis la necessità, da Beccaria in poi, che la giustizia dia una risposta sollecita sia alla vittima del reato sia alla persona accusata, che ha tutto il diritto di veder riconosciuta in tempi rapidi la propria innocenza (pur sempre presunta, in base alla Costituzione).
La rapidità della giustizia, coniugata all’assenza di discrezionalità del Giudice (che doveva limitarsi ad essere “la bocca che pronuncia le parole della legge”), era la cifra del pensiero illuministico settecentesco: di lì a poco, però, le teste rotolarono e si capì che la velocità poteva andare a discapito della ponderazione delle ragioni opposte e, sul piano processuale, delle prove. Il processo è (sempre più) questione di tecnicismi, anche scientifici, e difficilmente il suo governo si concilia con la fretta e la conseguente, inevitabile, superficialità.
Dunque, lento o veloce? Forse il principio ispiratore dovrebbe ritrovarsi nel motto “festina lente” attribuito da Svetonio all’imperatore Augusto: affrettati con calma, spicciati, ma non senza ponderare, sii efficiente ma non per questo superficiale, assumi una decisione ma soppesa attentamente le ragioni pro e contro.
Nell’ossimoro troviamo il cuore di un istituto, il processo, che deve dare garanzie di giustizia e di equità e bilanciare entrambe le esigenze: che dunque il processo sia lento, ma non per inefficienza dello Stato o indolenza dei suoi protagonisti, ma perché per decidere della sorte di un proprio simile il Giudice valuti con la saggezza, lo scrupolo e la prudenza che si addicono a un compito così grande. E terribile.
Alessandro Brùstia